Il mistero della festa celeste – Il mistero della liturgia eterna | La parabola degli invitati a cena

28ª domenica dopo Pentecoste | dei Progenitori – La parabola degli invitati a cena (Vangelo secondo Luca 14, 16-24)

Fin dall’inizio, San Cirillo di Alessandria, nel suo commento al Vangelo di Luca, ci spiega così splendidamente e brevemente il significato ultimo dell’opera di salvezza dell’umanità, che ci viene rivelato nella parabola degli invitati alla cena del re: “Essendo induriti, orgogliosi e disobbedienti, i capi dei sacerdoti dei Giudei rimasero lontani dalla cena.  Disattesero la chiamata divina, per occuparsi di cose terrene e per concentrarsi sulle vane follie di questo mondo. Perciò, fu chiamata la gente comune e subito dopo i Gentili”.

„Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!” (Luca 14, 15)

Parla malinconicamente il fariseo alla cui mensa il Signore rivela diverse parabole sulla primazia e sull’umiltà (perché i farisei sceglievano i primi posti a tavola), ma anche sull’eterno desiderio di cenare nel seno di Abramo, dove c’è pienezza e gioia. Tutto questo, subito dopo che Gesù ha guarito un malato di idropisia in quel sabato santo (quando i farisei e gli anziani erano spiritualmente rigidi) – il giorno del riposo, quando tutti si riunivano alle tavole che riposano il corpo, dimenticando la tavola che riposa l’anima, la tavola dello sposo – le nozze misteriche del figlio del Re, a cui tutti siamo chiamati (Mt. 22, 2).

Due versioni della stessa parabola, vista con gli occhi di Luca e dell’apostolo Matteo, ci rivelano il fine ultimo della vita umana: l’ingresso nella gioia mistica della cena (nozze) che sarà nel Regno dei Cieli. Gustare la gioia perfetta a cui il Signore ci chiama si mostra come la piena comprensione della relazione, sempre nascosta e dinamica, tra l’anima umana, che anela all’eternità, e Dio – la tacita cena – a partire dal fidanzamento che dà senso alla vita qui (che è una preparazione, una chiamata, un’anticipazione) al fine di entrare nelle nozze eterne (perfezione).

Signore, vieni a tavola con noi!

L’amore è sempre il legame nascosto che il Signore cerca instancabilmente nella redenzione di colui al quale ha dato un volto secondo la sua immagine, ma è anche l’unica cosa che placa veramente la sete estenuante che indebolisce le forze dell’eterno pellegrino su questa terra.

L’amore (agape – αγάπη) è il cibo celeste, l’unico motore che muove l’intero universo e questo mondo visibile, nel quale sembriamo intrappolati per l’eternità, è il cibo che rivela la festa del Verbo che “tutto soffre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L’amore (che) non viene mai meno” (1 Cor. 13, 8).

San Clemente Alessandrino ci rivela che “di tutto ciò che cade, il meno probabile che venga gettato dal cielo sulla terra è l’amore, che non cade mai tra tutti questi piaceri mondani. Se ami il Signore tuo Dio e il tuo prossimo (Mc 12,30-31), festeggerai in cielo”.  Che bello, quale gioia più grande che gustare il (e nel) cielo anche se si è (ancora) sulla terra! E non è forse a questa gioia che siamo chiamati, ogni volta?

Il popolo amato – il matrimonio misterico

Leggendo il racconto di Matteo (22, 1-14) comprendiamo che colui che sta preparando la festa non è altro che il Padre celeste – il Re eterno. La festa della grazia è un banchetto di nozze per il Figlio di Dio, che è promesso sposo alla Chiesa, per la quale ha versato il Suo sangue sulla Croce. La Divinità si unisce all’umanità, questo è sempre stato il pensiero infinito che ha mosso l’intera opera dell’universo.

Il Padre manda i messaggeri (i suoi angeli, così come i profeti e tutti i giusti che hanno sofferto nel corso dei secoli) affinché siano chiamati alle nozze gli eletti, non tutta l’umanità (fin dall’inizio), ma solo coloro che potevano comprendere il mistero dell’amore (tanto tradito nel corso della storia), che il Signore ha sempre mantenuto vivo con immancabile pazienza, attraverso tutti i santi che gli sono stati graditi nel corso dei secoli.

Ora di cena – ora del giudizio

Il banchetto a cui il Padre ci chiama si tiene alla fine del giorno (dei secoli), all’alba del primo sole, dopo la fine del tempo della storia, cioè il tempo di questo mondo decaduto, il tempo dell’opera di salvezza, il tempo escatologico – lì è chiamato il popolo di Israele, ma anche tutti coloro che non avrebbero dovuto tradire l’amore nascosto di Dio, per godere delle nozze eterne.

„Ma tutti, uno dopo l’altro, cominciarono a scusarsi.” (Luca 14, 18)

Tutti i chiamati si scusarono, tutti erano più legati alla terra di questo mondo che alla terra della promessa celeste. Sopraffatti dalle preoccupazioni terrene, privati della comunione spirituale, assetati di ricchezze, vinti dall’amore per la carne, si mostrarono lontani dalla santità dell’immagine di Colui che li aveva chiamati alle nozze.

Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego di perdonarmi – l’immagine dell’alienazione della terra di questo mondo (e di Israele), della terra che hanno ereditato gli ebrei, ma anche tutti noi, qui e ora. È anche una rappresentazione delle tradizioni, del radicamento negli usi e nei costumi, una perdita negli innumerevoli usi e costumi, un radicamento nell’esteriorità, che è qualcosa di molto stancante (la fatica della terra vi rende deboli – con il sudore del tuo volto mangerai il pane – Genesi 3,19).

Ho comprato cinque paia di buoi, e andrò a provarli; ti prego di perdonarmi – sono i cinque libri di Mosè, la vecchia legge, che appesantisce e tiene in schiavitù mediante prescrizioni esteriori colui che è chiamato al cielo. Dieci (cinque coppie) dovrebbe rappresentare il compimento e la perfezione di questo mondo, ma si mostra piuttosto come la natura dell’uomo che si preoccupa più dell’edificio che del suo costruttore.

Ecco la pietra d’inciampo che l’umanità non è riuscita a superare (la tentazione sempre attuale di Adamo): il desiderio di essere dio senza Dio, di cercare una gioia effimera sulla terra ereditata che diventerà un paradiso transitorio senza il Dio Re che ci chiama alla perfezione.

Ho preso una donna e quindi non posso venire – l’immagine dell’amore decaduto, la scusa più dolorosa e, allo stesso tempo, drammatica, con cui l’uomo terreno (l’eterno Adamo) tradisce il suo Creatore. L’uomo ha le sue nozze terrene, la gioia della nostalgia per le emozioni che tanto lo inganna. L’amore divino, l’amore spirituale e santo, viene sostituito dall’amore carnale, l’amore decaduto – l’amore schiavo dei sentimenti ciechi e dell’egoismo (il sé a cui non possiamo rinunciare). È anche un ultimo (e quanto doloroso) rimprovero a Dio – l’uomo ha qualcuno da cui essere amato, dopotutto, non ha bisogno dell’immagine dell’amore crocifisso, doloroso, ma vero – l’unico che eleva le anime alla perfezione.

Qui si nasconde anche l’immagine del culto indurito nell’esteriorità – le prescrizioni della legge, le usanze, la stretta catena di ordinanze che non devono essere infrante, tutto pesato sulla bilancia separa l’uomo dall’eternità, perché – ha abolito la parola di Dio con l’ordinanza (che) egli stesso ha dato (Mc. 7,13). L’uomo firma la propria condanna, il proprio rifiuto, così categorico, di entrare nella gioia delle nozze. L’amore si lascia vincere dalla legge – noi abbiamo la legge e secondo la nostra legge Egli deve morire (Giovanni 19,7) – affinché l’uomo sia liberato dalla legge e conosca l’amore.

„Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi.” (Luca 14, 21)

Sant’Ambrogio di Milano interpreta questo versetto in modo ispirato, dicendo che “il maestro chiama i poveri, gli impotenti e i ciechi, mostrandoci così sia che le debolezze corporee non ci escludono dal regno dei cieli e che chiunque sia libero dall’attrazione del peccato raramente soffre, sia che la misericordia del Signore perdona le debolezze dei peccatori. Chi si vanta nel Signore (1 Cor. 1,31) si vanta come chi è scampato alla vergogna dei peccati non per opere ma per fede (Rm. 8,32)”.

Esci per le strade e lungo le siepi e costringili ad entrare, perché la mia casa si riempia.” (Luca 14, 23)

C’è ancora posto (oggi, e anche domani) nel Regno eterno, c’è ancora posto alla tavola del Re, c’è ancora posto nella compagnia dell’amata dello Sposo – e tutti i popoli sono chiamati a gustare il mistero della fede e della buona novella. È anche una prefigurazione dell’evangelizzazione universale, il Verbo vivente che viene portato per sfamare tutti i popoli che erano fuori dalle porte di questa cena meravigliosa – da lì inizia la salvezza.

L’apostolo Matteo richiama la nostra attenzione su un dettaglio che fa riflettere: Dio (il Re) entra nella cena chiudendo le porte e guarda l’umanità chiamata a tavola faccia a faccia – il Creatore che entra nel mistero dell’amore perfetto con la sua creazione – ma uno dei commensali non indossava abiti di festa e viene messo fuori. Ogni re ha vestito di onore i suoi ospiti che indossavano gli abiti più belli, in modo che tutti brillassero come luci di gloria. Colui che viene spogliato della veste della grazia è colui che ha rifiutato la veste dell’imperatore – quella data gratuitamente – benché a un prezzo molto alto, quello del sangue versato sulla Croce della salvezza.

Divina Liturgia – Il matrimonio eterno che risiede in noi

Dal battesimo in poi, portiamo in noi il “sigillo del dono dello Spirito Santo” – siamo rivestiti della veste regale e chiamati alla cena celeste. Questo ha sigillato i nostri sensi come una caparra  affinché ci evolviamo nella comunione delle cose celesti, per vedere Dio, per ascoltare e comprendere la parola di Cristo, per sentire il buon profumo spirituale di coloro che sono in alto, per  pronunciare le parole di lode e di benedizione, per  sentire il fuoco vivificante e salvifico della fede, per  lavorare per il Signore e di camminare sulla sua strada, e per  essere sempre uniti  nelle nozze misteriche  ed eterne che sono la Divina Liturgia.

 Giungendo alla Divina Liturgia e vivendola, entriamo nella Casa di Dio che, nel mistero delle nozze eterne, osiamo, senza condanna, chiamare per l’eternità: Padre nostro! Non siamo più orfani, siamo figli del Re.

L’Eucaristia – il mistero delle nozze

L’Eucaristia costituisce il cuore della Divina Liturgia ed è, fin dall’inizio della vita cristiana, il fondamento su cui l’assemblea di coloro che sono diventati di Cristo, figli dell’imperatore e amici dello sposo – ha cercato di ricevere e custodire, realizzare e trasmettere il tesoro lasciato dal Signore attraverso i suoi santi Apostoli, rendendolo presente, per opera dello Spirito Santo, in ogni generazione. In questo modo, ognuno di noi diventa, sempre, partecipe del mistero delle Nozze, della Cena benedetta che non finisce mai.

A coloro che desiderano gustare il cibo regale rivelato e condiviso nella Divina Liturgia, Dio stesso viene incontro (al cieco, nelle cose spirituali, allo zoppo che inciampano, nelle cose della vita ecclesiale,  ai poveri nello spirito ,  a me,  a voi,  a tutti noi), scrutandoli e toccando i loro cuori con il soffio della grazia – la gioia di essere sempre a tavola con Colui che si fa cibo vivo per la vita eterna.

Cerchiamo quindi anche in quest’ora, più profondamente e più seriamente, “il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose ci saranno aggiunte” (Matteo 6, 33). Perché solo così potremo entrare nelle nozze eterne e senza fine, le nozze della gioia e della grazia incommensurabile, le nozze dell’amore che travolge ogni sentimento dell’anima, le nozze che ci uniscono, per sempre, al corpo di Colui che ha dato la vita per noi, le nozze delle nozze e della vita – le mie nozze, ma anche le vostre, nella luce gioiosa (e senza fine) della gloria santa del Padre celeste, che per l’eternità ci accoglie nel suo Regno.

† Atanasie di Bogdania